Sembrava piovesse da giorni,
eppure stamattina il cielo era terso. A Napoli il clima è sempre stato così: le
tempeste sono intense, tirano giù gli alberi ma durano poco. La città pretende
subito di risplendere, di fare dei ciottoli bagnati un mosaico di specchi in
cui riflettersi. La città è vanitosa, la città è femmina.
Ero fermo a fissare la finestra ingurgitando del bourbon e, più passavano i minuti, più l’orizzonte che divideva
mare e cielo si faceva confuso, si sdoppiava, sino a scomparire, facendo dei
due elementi un'unica tenda grigia che si stagliava frenetica di fronte al mio
sguardo. Probabilmente ero chiuso in casa da giorni, da quando quell’aereo da
New York aveva posato le sue zampe di gomma sull’asfalto di Capodichino dopo
aver lasciato un saluto anche a quello di Paris-Roissy. Avevo fittato una
stanza all’angolo tra Santa Lucia e Mergellina. Appena arrivato in città,
un’anziana notò la valigia di pelle nera con cui affannavo il cammino verso
una meta che ancora non possedevo. La valigia era talmente grande che davo
l’impressione che fosse lei a sorreggermi, piuttosto che il contrario. La
Signora era una sorta di centauro contemporaneo: metà donna, metà sedia. Era
talmente in simbiosi con gli assi di legno dello scanno pieghevole che ne
gestiva le oscillazioni come provenissero da una sua appendice. D'improvviso si drizzò e puntò il
braccio verso l’adesivo a stelle e strisce che avevo appiccicato sulla valigia.
Finì la frase oscillando la mano sinistra avanti e indietro verso la bocca, con le dita chiuse a cuneo: il gesto universale che significa “mangiare”. Lo accompagnò con uno sguardo materno che mi attrasse nel grembo del piccolo cortile al basso.
“Signò non so americano. Sto
tornando da un viaggio di lavoro.”
“Lavoro…ah ah! Beato a vuje ca o’ tenite! E, sentimme, che lavoro facite vuje?”
Nel chiedermelo si sporse dalla sedia al punto che scattai verso di lei, convinto fosse in procinto di cadere.
“Il mago, signora, il mago. Sono stato prima in Francia, poi a Broadway: la mia compagnia sta qua, al San Carlo.”
“Compagnia?” Scrutò artificiosamente a destra, poi a sinistra “embè ij ve veco sulo?”
“Eh…signò so dovuto andare via.
Non sto qui a raccontarvi che è successo. Sentite: avete detto che tenete una
casa, mi servirebbe ‘na stanzetta”
Prima di rispondere mi invitò con la mano grassa e callosa a guardare la finestra che faceva angolo nel palazzo che ci si parava di fronte. Non aveva tende. Le tapparelle, originariamente verdi, erano scolorite dalla salsedine e lasciavano intravedere solo la metà inferiore dei vetri, vecchi, ma scintillanti.
“Si, signora, sembra apposto. Posso dargli un occhiata dentro?”
“Una stanza, un letto, un bagno e ‘na piccola cucina ad angolo: chest’è! L’arredamento è vecchio ma ogni mattina lo pulisco comme ‘na bomboniera. 40 lire a notte, che vuò fa? Ah, e nun te scurdà che, quando vuoi, nu piatt e pasta è compreso nel prezzo”
Mi sorrise. Lessi in quel sorriso almeno sette
decenni di guerra, dolore, amori, semplicità e, oramai, stanchezza, tanta
stanchezza: la si intuiva dalle palpebre che parevano le tapparelle sulla
finestra della casa: chiuse per metà, corrose dal sale.
Da allora non ero più uscito. Due
volte al giorno Donna Carmela mi chiamava alla finestra e mi lasciava nel
paniere un piatto di pasta, con un altro piatto a fare da coperchio e uno
straccio chiuso in cima con un doppio nodo, per tenere chiusi i contenitori e
ferme le due fette di pane che vi poggiava sopra. Vi era una geometria semplice
quanto geniale in quella struttura: i piatti chiusi tenevano caldo il
contenuto, il pane postovi sopra si scaldava, il canovaccio teneva tutto
assieme e bastava sciogliere il nodo perché divenisse una piccola tovaglia già
bella e imbandita. Era la più sincera manifestazione del senso di maternità. La
bottiglia di bourbon era ormai vuota e non avevo per niente fame. Notai che tra
il pane e il piatto era incastrato un biglietto: Donna Carmela era solita recapitarmi la pubblicità che riteneva potesse interessarmi. Mi alzai con fatica e
stracciai via il piccolo biglietto.
Volete recuperare i vostri ricordi perduti?
Dottor William Bradbury: mnemografie
Vico Fico al Purgatorio Napoli
Pensai di essere troppo ubriaco e di aver solo immaginato il testo sul volantino ma ricordai che, prima di partire, sentì per radio che un intero laboratorio medico stava migrando dagli Stati Uniti verso numerose città europee per sperimentare un nuovo metodo di recupero della memoria che non era stato approvato dal Senato. Evidentemente, qualcuno di loro era arrivato sino a Napoli e si era creato uno studio abusivo in un sottoscala diroccato per sfuggire all’etica, lì dove il sole non riusciva a battere.
Pensavo a Lorelay da quella notte al Cafè Cino a Broadway. Avevo ricordi confusi in merito a quanto accaduto nei giorni successivi, così come di tutti i 5 anni che ci avevano legato. I ricordi crollavano nella mia mente come antiche rovine, di loro non rimaneva che un esoscheletro di circostanze, ricordi di ricordi, la loro trasposizione indiretta e casuale, privata delle piccole sensazioni che li avevano resi degni di rimanere nella mia testa. Il tempo, privo di qualunque ordine, cancellava i dettagli, come il vento che soffia su una montagna per millenni, sino a cambiarne la forma: senza volontà, solo come effetto del suo procedere. Iniziai a roteare il bigliettino tra le dita, mi cadde più volte a terra ed ogni volta non potevo fare a meno di fissare la parola “mnemografie”. Era tutto così strano da non sembrare reale: non poteva esistere un modo così semplice per riappropriarmi dei miei ricordi. Usai la bacchetta da mago per mescolare al ghiaccio l’ultimo sorso di liquore che mi rimaneva, fissai l’orologio:
17:17
Afferrai le chiavi
dell’appartamento e la piccola Effige di San Gennaro che vi era attaccata urtò
il bicchiere, perforandomi la testa con un’onda sonora che percepì come una
coltellata alle tempie. Scesi le scale con difficoltà, giungendo all'ultimo gradino convinto ve ne fosse un altro e che vi fosse più distanza tra me e il marmo. Battetti il piede a terra con forza eccessiva: per poco non caddi, aprì il portone e fui in strada. Le
persone boicottavano i marciapiedi e si ammassavano all’ombra dei balconi. Feci
lo stesso, data la pioggia incessante e, subito, mi appoggiai alla parete di un
palazzo. Adoravo la sensazione di protezione che segue alla scoperta di un
riparo dopo una fuga, ti fa riassumere la pienezza di ciò che possiedi, ti fa
adorare il cappotto che ti ha protetto, riesuma nelle persone le reminiscenze
della culla placentare. Quell’invito cartaceo a ciò che avevo perso del mio
passato era talmente sovrannaturale da non poter essere rifiutato, rispondeva
alla logica che regola le fantasie, alla logica dei maghi.
DDL
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