"Quant'è maestr?"
"Mill lir wagliò"
Pescai una banconota maciullata con l'amo del
mio indice dallo stretto lago della tasca destra e li porsi all'avida morsa del
venditore che nemmeno li guardò, gerarchicamente distratto da banconote più
grandi. "Questo è il nostro giorno prima...ti amo Girasole"
Una piccola scritta a penna, un epitaffio di
un amore finito in un teatro di carta. Decisi di richiudere il volume: la sua
vera storia era in quel retroscena, non mi interessavano più i lividi provocati
dalla macchina da scrivere sulla delicata pelle della carta. Avrei scritto io
quella storia, iniziai a pensare, a immaginare un lieto fine a quell'amore
abbandonato...intimamente convinto che mi avrebbe aiutato a ritrovare anche il
mio, anch'esso errante nella discarica degli eventi reciprocamente ignoti.
Tornai a casa quando il sole era
sorto ormai da circa un’ora. Mi sedetti nel mio nascondiglio di cuscino e
lenzuola e afferrai un piccolo quaderno che nascondevo in un doppiofondo del
cassetto del comodino: volevo rimanesse segreto perché dentro vi erano le
cronache della mia intimità. La verità dietro i convenevoli, cui la vita mi
costringeva, erano tutti in quello scrigno di cartoncino nero. Controllai che
la porta fosse chiusa: riuscivo a scrivere solo se i miei occhi erano eremiti
sul deserto delle pagine, sotto il vento del loro progredire. Provai a
immaginare le fattezze, i tratti somatici, il corpo, lo sguardo, i capelli, le
mani…ogni piccolo dettaglio di “Girasole”. Il nome stesso e l’immagine florea
che esso richiamava in modo intrinseco, afferrarono la matita della mia
immaginazione e, con estrema scioltezza, disegnarono un’esile e filiforme
ragazza bionda, dal volto rotondo, due grandi occhi, rigorosamente chiari dallo
sguardo distratto e dolcemente vacuo…no,
frush frush…cancellai gli occhi dalla bozza e soffiai via ogni loro maceria.
Vi racconto un segreto di noi
scrittori: in ogni donna di cui raccontiamo, anche se completamente diversa
dall’amore che spinge la nostra penna, dovremmo inserire un dettaglio, anche infimo
ed insignificante, di colei che alberga nei sotterranei del nostro subconscio.
Io decisi sarebbero stati gli occhi, i suoi occhi: profondi ma empirei, caldi
ma irraggiungibili, grandi, grandissimi…con le proporzioni sul volto di quelli
di un bambino. Pensai, battendo ritmicamente il dorso della penna sul foglio:
quale poteva essere il giorno prima della felicità?
Pensai a un ragazzo, lo immaginai
alto, dai capelli irti e folti, neri. La sua grande testa si reggeva su un
corpo troppo esile, al punto da conferire l’impressione che vivesse in un costante
disequilibrio. Il suo andamento incerto trasmetteva accessibilità a chi lo
conosceva, nonostante la visibile forza del suo ego, che proiettava su di loro
tramite la fermezza di uno sguardo mai schivo, sempre frenetico
di una sazietà che si muoveva come l’orizzonte: coscientemente irraggiungibile,
testardamente inseguita. Quando lei si perdeva nei labirinti dell’incertezza,
lui passava quel tempo nella frenesia della lettura, ci fossero volute ore,
settimane o interi, infiniti mesi per, forse, rivederla. Il tormento per gli errori commessi fu
quella volta tale che egli rimise in discussione ogni sua prerogativa. Evolvette le sue consapevolezze con la fretta e l’evidenza con cui l’adolescenza fece lo stesso con il suo timbro di voce. Una torre di carta cresceva sulla
sua piccola scrivania di betulla; con l'aumentare delle X sui tasselli del suo calendario,
finché non ne furono due, finché una di essa non crollò spargendo sul pavimento
metà delle storie mute che aveva scelto di ascoltare.
“Il giorno prima della felicità”
L’aveva letto tutto d’un fiato
durante una di quelle serate in cui si sceglie il sonno, pur di fuggire alla
noia. La pioggia batteva leggera e irregolare sulla finestra. Tutti dormivano
in casa e la lettura fu talmente distratta dai copioni dei sogni che si
sarebbero inscenati quella notte, una volta calati i sipari di carne davanti
agli occhi, che a stento ne ricordava la trama, una volta svegliatosi. Afferrò
il libro con veemenza, così come feci io dal bazar del paffuto rigattiere. Con
la stessa attitudine pugnalò il frontespizio lasciando come ferita la traccia
nera che mi aveva portato nella geografia di questa fantasia.
“Aro va…”
La madre non fece in tempo a finire la frase che il rumoroso bacio tra la porta e lo stipite le rispose, nel linguaggio di cui una madre è unica interprete.
“Che è stat’?”
“Niente Pascà, cos e’ core. Lasciò ij! Adduormete nata vota, oì!”
Disse al marito bacchettandolo,
mentre si allontanava enfatizzando l’oscillare dei suoi fianchi, come a
somatizzare il disappunto per la pigrizia di Don Pasquale.
Il ragazzo corse per alcuni
minuti tra le sottili incisioni che dividevano i palazzi di Santa Lucia,
ricordando che il libro parlava di un nascondiglio, un nascondiglio scoperto
con gli occhi di un bambino e custodito con quelli di un adulto. Il cuor gli
salì fin sotto il mento, picchiandolo con un climax crescente. Di lì a poco
incontrò il mare e il basso, lunghissimo muro che ne demarcava il regno. Si inginocchiò
di fronte al muretto, un po’ perché esausto, un po’ per santificare con una
posa cinematografica l’ardore con cui stava compiendo quel gesto. Strinse uno
dei mattoni tra le mani, l’unico che mancava della cornice di malta grigia che
racchiudeva tutti gli altri.
Uno…due…tre violenti strattoni.
Il mattone venne via dal muro così come la
pelle dai suoi polpastrelli. Il sasso celava una piccola intercapedine, così
piccola che per custorivici il libro dovette arrotolarlo come una pergamena,
prima di richiuderlo con il pesante tappo di pietra. Lo reinserì mentre gli
occhi si accertavano che non ve ne fossero stati altri a condividere il suo
segreto. Per due persone come loro sarebbe stata comunque felicità, in ogni
caso. Decise che sarebbe tornato lì solo il giorno prima…il giorno prima di
intraprendere qualunque delle strade che lo avrebbero portato ad essere felice.
Probabilmente vi tornarono assieme, saldati da un abbraccio, per ridare luce a
ciò che per tanto tempo era rimasto recondito e segreto, come l’amore che aveva
continuato a coltivare per lei, anche solo con qualche raro sorriso distratto
ogni volta che gli fosse tornata in mente. Forse avevano deciso di lasciare lì
il libro perché mi raccontasse la loro storia, a me, perfetto sconosciuto,
nuovo custode di un copione solo probabile, mai certo. Forse, semplicemente, la
stessa curiosità che lo portò a rinvenire il nascondiglio tra terra e mare, era
stata imitata da un passante, che aveva trovato il libro per riconsegnarlo al
vento della lettura, lasciandolo sul sedile vuoto di un tram. Lascio a voi la scrittura del finale: sappiate solo che lui e Girasole avrebbero comunque sorriso, appena prima della felicità...(forse) nello stesso istante.
DDL
Ringraziamo per l'immagine di Paolo Minopoli.
DDL
Ringraziamo per l'immagine di Paolo Minopoli.